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I disturbi alimentari e la famiglia


I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono patologie in cui il sintomo più evidente è l’alterazione del comportamento alimentare, unito a una valutazione estremamente negativa del proprio corpo e ad un’alterata percezione della sua immagine e del peso.


Si riconoscono tre tipi di disturbo del comportamento alimentare: Anoressia Nervosa (AN), Bulimia Nervosa (BN) e Disturbo da Alimentazione Incontrollata (DAI).


La caratteristica principale di tali disturbi è una significativa alterazione del comportamento alimentare dell’individuo, che va dal rifiuto generico del cibo a vere e proprie abbuffate, ed è associata a forti preoccupazioni relative al peso e alla forma corporea. L’alterazione della percezione dello schema corporeo favorisce la convinzione nei soggetti con DCA, di essere grassi pur essendo sottopeso, alimentando il terrore di ingrassare, o contribuendo ad assumere comportamenti che alternano momenti di digiuno a momenti in cui vengono ingerite grosse quantità di cibo.


Nei disturbi del comportamento alimentare rientra anche l’obesità psicogena perché è sostenuta da cause di natura psichica e non da cause mediche di natura endocrina o genetica.


I disturbi della condotta alimentare, così descritti, hanno significative correlazioni con la sfera psicologica del soggetto al punto da essere indicati da alcuni autori come il segnale della lotta incessante del soggetto contro un profondo senso di impotenza e disvalore, percepito soprattutto in ambito familiare.


Da sempre la psicologia è impegnata nella riflessione sul ruolo della famiglia come fattore di sofferenza emotiva. Nel bene e nel male, si tratta di una componente che non si può trascurare.


Attualmente le linee guida internazionali indicano che data la complessità della problematica alimentare, essa deve essere trattata tenendo conto di approcci terapeutici differenti (nutrizionisti, dietisti, endocrinologi, psichiatri e psicoterapeuti) che lavorano in sinergia, proiettati verso un unico obiettivo: il benessere del soggetto.


L’obiettivo della terapia familiare è individuare le modalità relazionali presenti tra i membri del nucleo familiare che rendono “funzionale” il sintomo all'interno del sistema poiché favoriscono il mantenimento di uno status quo, resistente al cambiamento e all'evoluzione individuale e familiare. La finalità del lavoro è quella di ricercare il significato che il cibo assume nella famiglia per aiutare i suoi componenti a sperimentare altri linguaggi, dinamiche relazionali più flessibili e adeguate, e riportare il cibo nella sua giusta collocazione.


Constatare che solitamente i genitori considerano la patologia alimentare come una malattia misteriosa non sorprende affatto.


Un basso livello di “coscienza di malattia” può provocare frustrazione e confusione, e può esitare in comportamenti contraddittori da parte dei genitori, in quanto basati su un sistema di credenze non adeguate. Se si esaminano gli studi sui comportamenti genitoriali risulta che madri e padri maturano convinzioni positive sulla malattia e tendono a indirizzare i propri figli verso il piano di realtà. In questi casi gli esiti di malattia sono migliori rispetto ai casi in cui i genitori tendono a minimizzarne le manifestazioni comportamentali.


Analizzare le strategie adottate dai genitori per interpretare i significati inerenti allo sviluppo della malattia può portare a una condizione di maggiore benessere del paziente. Come è opportuno approfondire, anche nel lavoro clinico, le modalità di accudimento attuali, che entrambi i genitori portano in eredità come modelli genitoriali acquisiti nelle loro famiglie d’origine.


Come detto più sopra, "la ricostruzione" della storia familiare, può in parte, contribuire a rispondere alla domanda (che non include solo i DCA), ovvero: se il rifiuto (o l'eccesso) di cibo è legato ad una crisi esistenziale, perché si è selezionato proprio per quel sintomo?


In particolare: come sono stati affrontati e tramandati alcuni atteggiamenti riguardanti la detenzione del potere, l’affermazione e il conformismo sociale (fattori chiave nell'esordio del disagio alimentare), nel passato?


La conoscenza delle proprie origini è uno dei modi in cui i bambini iniziano ad emanciparsi dalla famiglia, per questo è importante osservare il paziente (e il suo disagio attuale) all'interno di un contesto più ampio come il sistema familiare allargato. In esso, possiamo evidenziare modalità interattive che si ripetono in maniera rigida e ricorsiva nel tempo.


<<Ciò che si condensa in un segreto di famiglia è condannato per definizione ad insistere, a ritornare, a pesare sulla vita dei bambini e delle generazioni future>> scrive Marisa Fiumanò.


Vedremo, come, in particolare nei disturbi alimentari, la negata esplicitazione della protesta, l’impossibilità di dare parola alle istanze conflittuali e di verbalizzare le tensioni emozionali potrebbe giustificare la forma tutta non-verbale e analogica con cui il disagio si manifesta e la scelta di una via somatica, di un linguaggio del corpo.


Il linguaggio del sintomo (qualunque esso sia) non è solo il linguaggio del corpo del paziente, ma dell’intero corpo familiare.



Bibliografia


Telfener U., Disturbi dell'alimentazione, ipotesi esplicative e modalità di intervento: una panoramica. Sito internet Academia

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